




Scrivimi ogni volta che piove
Cosa faresti se la tua lettera d’addio ricevesse una risposta?
Per Ethan Cole, un professore di filosofia dell’Iowa intrappolato da un destino genetico, la vita è un copione già scritto che conduce a una sola, tragica conclusione. Ma quando il suo ultimo saluto al mondo finisce per errore sulla scrivania di Beatrice, una sconosciuta a Londra, il suo mondo si capovolge.
Spinto da una corrispondenza che riaccende in lui una luce che credeva perduta per sempre, Ethan attraversa un oceano. Quello che trova non è solo una donna straordinaria, ma un amore in grado di sfidare il destino.

“Una prosa precisa, evocativa e a tratti cinematografica. L’autore crea immagini potenti e atmosfere tangibili con un controllo eccezionale del linguaggio.”
Filippo
“I personaggi sono indimenticabili. L’arco di trasformazione del protagonista, Ethan, è gestito con una credibilità psicologica ammirevole. Beatrice è molto più di un semplice interesse amoroso; è una forza della natura, luminosa e tragica.
Leonardo
“Esplora temi profondi e universali con grande intelligenza emotiva: l’amore come forza salvifica, il lutto, la depressione e il conflitto tra destino e libera scelta.”
Mirko
“Un romanzo completo, emotivamente potente e scritto a un livello assolutamente professionale. È una storia sulla disperazione, ma soprattutto sulla speranza. Sulla morte, ma soprattutto sull’incredibile, ostinata forza della vita. Un libro eccezionale.”
Aldo
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CAPITOLO 1
L’ineluttabile
23 Agosto 1982, Cedar Falls, Iowa.
La pioggia batteva contro il vetro con una persistenza priva di passione. Non era una tempesta, era una semplice, inesorabile affermazione del grigio. Per Ethan Cole, era il metronomo del suo tempo sospeso.
Era seduto su una sedia di vinile arancione, logora ai bordi, nella stanza 214 del reparto di lungodegenza dell’ospedale della contea. L’odore era un cocktail di disinfettante, cibo riscaldato e la nota dolciastra della malattia che impregna le lenzuola. Fuori, l’Iowa permeava ogni cosa, appiattendo l’orizzonte fino a trasformarlo in una riga tracciata con un righello.
Ethan si stava perdendo in uno di quei pensieri inconfessabili: si chiedeva come fosse possibile che tutti, in quell’ospedale, vivessero le loro giornate immersi in un olezzo fetido. Lui lo detestava. Quando usciva da quella tragedia, correva a lavarsi e lanciava i vestiti in lavatrice. Erano mesi, forse un anno, che era di nuovo incastrato in quella realtà.
Guardava il suo riflesso nel vetro bagnato, una sagoma scura sovrapposta ai campi di granturco mietuti e al cielo basso. Poteva sentire i movimenti del padre senza bisogno di vederli. Un tremito improvviso del braccio, un guizzo della gamba, un dondolio della testa. La “corea”, la danza macabra che dava il nome alla malattia.
Suo padre, Samuel Cole, era un fantasma in quel letto. Un tempo era stato un uomo la cui identità era la terra stessa, le cui mani conoscevano il linguaggio dei motori e della semina. Un agricoltore filosofo, stoico e taciturno, che durante i lunghi inverni leggeva Hegel e Heidegger nella quiete della fattoria, cercando di dare un nome all’esistenza che sentiva visceralmente nei campi.
L’Huntington era stata la beffa più crudele. Aveva trasformato il suo corpo temprato dal lavoro in uno strumento ribelle, umiliandolo. E poi, l’assalto finale: la nebbia cognitiva che aveva avvolto la sua mente, lasciandolo solo con il guscio di un corpo scosso da tremori, con occhi opachi che guardavano senza più riconoscere il figlio seduto accanto a lui.
Ethan si costrinse a voltarsi. Guardò il viso del padre, eroso dalla sofferenza. In quei tremori, in quello sguardo vuoto, non vedeva solo la fine di Samuel, ma un’anteprima della propria.
Il suo sguardo vagò oltre il letto del padre, verso l’altro occupante della stanza, un vecchio scheletrico con la pelle color pergamena. Respirava a fatica, un rantolo umido che era il suono stesso della fine. Le sue unghie, gialle e spesse come artigli, spuntavano dalle lenzuola. Ethan pensò a tutta quella vita ridotta a un tubo nel naso e a un pigiama liso.
E le infermiere? Passavano con i loro sorrisi di plastica, le loro parole di conforto imparate a memoria. «Come stiamo oggi?». Una farsa. Erano solo meccanici della carne, intente a stringere un ultimo bullone su una macchina che stava andando in pezzi. Non c’era carità lì dentro, solo una routine efficiente e disperata per gestire il disastro della biologia.
La spiegazione del medico, mesi prima, era stata un capolavoro di cinismo clinico, una lezione sull’ineluttabilità scritta nel sangue. Ricordava fin troppo bene lo studio del Dottor Albright, il medico di famiglia da una vita, un uomo che aveva visto nascere sia lui che Susan.
«Ragazzi, purtroppo temo che il quadro clinico di vostro padre non lasci dubbi» disse piano, aggiustandosi gli occhiali. «Temiamo che la Huntington abbia colpito anche lui. I segnali sono, purtroppo, inconfondibili».
Ethan era immobile, lo sguardo perso fuori dalla finestra, sprofondato nel suo abisso. Fu Susan a rompere il silenzio. La sua voce, solitamente ferma e pragmatica, era incrinata da un’incredulità quasi rabbiosa. «Dottore, con tutto il rispetto… come è possibile?» chiese, sporgendosi in avanti sulla sedia. «La Huntington è una malattia genetica rara. Che l’avesse la mamma era già una tragedia statistica. Ma entrambi? Nostro padre e nostra madre? Le probabilità sono… infinitesimali. È assurdo».
Il Dottor Albright si tolse gli occhiali e li pulì lentamente con un fazzoletto, un gesto che tradiva la difficoltà del suo compito. «Avete ragione, Susan» disse con voce pacata. «Se pensassimo a Samuel ed Eleonora come a due persone prese a caso nel mondo, le probabilità sarebbero quasi nulle. Ma non dobbiamo guardare al mondo. Dobbiamo guardare qui. A Cedar Falls».
Si appoggiò allo schienale della sedia. «Questa non è una storia di sfortuna casuale, ma di storia locale. Questa zona, come gran parte dell’Iowa rurale, è stata popolata più di due secoli fa da un gruppo relativamente piccolo di coloni. Famiglie arrivate dalla stessa regione della Germania, o dell’Olanda, in cerca di terra. Un cosiddetto “gruppo fondatore”».
Fece una pausa, assicurandosi che lo stessero seguendo. «Ora, immaginate che solo una persona in quel gruppo originale, un singolo antenato, fosse portatore del gene della Huntington. Per generazioni, quel gene difettoso si è diffuso silenziosamente nel pool genetico della comunità. Le persone qui tendevano a sposarsi all’interno della stessa area, della stessa rete sociale. Il gene continuava a circolare, nascosto, passando da un ramo all’altro delle famiglie fondatrici».
Susan lo fissava, il suo cervello da storica che assemblava i pezzi con un orrore crescente. «I vostri genitori» concluse il dottore con delicatezza «pur avendo cognomi diversi e non credendosi parenti, erano quasi certamente cugini molto lontani. Di terzo, forse quarto grado. Entrambi discendenti di quell’unico, sfortunato antenato».
Il medico li guardò con profonda compassione. «Il loro matrimonio non è stato solo l’unione di due persone che si amavano. È stata la collisione di due linee genetiche destinate, prima o poi, a questa tragica convergenza».
Un silenzio tombale riempì la stanza. Susan si lasciò cadere contro lo schienale, sopraffatta. Ethan, invece, non pensava alla storia. Sentiva solo il peso di un filo invisibile, un destino scritto non nelle stelle, ma nel sangue e nella terra di quella piccola, chiusa comunità dell’Iowa. La consapevolezza che la sua vita non fosse un foglio bianco, ma una pagina già scritta, una tragedia annunciata da generazioni.
L’Huntington era una malattia autosomica dominante: un ladro che si insinuava nel cervello per sfilacciare i pensieri, rubare i ricordi e trasformare il corpo in un burattino scosso da un carosello di tremiti involontari. Un declino lento e inesorabile verso il nulla, una guerra persa prima ancora di essere combattuta. Con un solo genitore malato, il destino era un lancio di moneta: una possibilità su due di ereditare la condanna. Ma quando entrambi i genitori erano portatori del gene difettoso, la matematica diventava una stanza con quattro porte chiuse. Dietro una sola di quelle porte c’era la salvezza: una singola possibilità su quattro di nascere completamente sani. Dietro altre due si celava la condanna “standard”, un declino lento e inesorabile. E poi c’era la quarta porta, la peggiore: l’eredità di due geni difettosi, che prometteva una progressione della malattia potenzialmente più rapida e grave.
Tre porte su quattro conducevano all’abisso. Un’infermiera entrò, controllò la flebo e sistemò le coperte con gesti meccanici. Rivolse a Ethan un sorriso stanco e compassionevole che lui non ricambiò.

